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4 nov 2015

“AIDA” A TORINO PER CELEBRARE LA RIAPERTURA DEL MUSEO EGIZIO

“AIDA” A TORINO PER CELEBRARE LA RIAPERTURA DEL MUSEO EGIZIO

Autore: Anonym / mercoledì 4 novembre 2015 / Categorie: Attualità, Musica, Teatro, Italia / Vota questo articolo:
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La coincidenza con l’apertura del rinnovatissimo e grandemente ampliato Museo Egizio, ha spinto il teatro lirico di Torino, il Regio, ad un allestimento storicamente, se non addirittura archeologicamente, “fedele”, impeccabile, dell’”Aida”: riproduzioni di stele, statue e di iscrizioni geroglifiche campeggiavano nel foyer. Un Verdi, questo autunnale del Regio, agli antipodi di ogni logica di “modernizzazione” forzosa o di reinvenzione registica innovativa, più o meno azzardata e provocatoria. Del resto, la stessa “prima” di “Aida”, quasi 150 anni fa, fu realizzata esattamente con la stessa logica di aderenza rigorosa a quelli che erano i monumenti e il mondo iconografico dell’antico Egitto: ma erano altri tempi, certo, teatralmente parlando… Non per lui, però, William Friedkin, il grande regista di cinema (“Il braccio violento della legge”, “L’esorcista”), che ha firmato la regia dello spettacolo: non nuovo ad incursioni – comunque apprezzate – nella lirica, alla presentazione dell’opera torinese Friedkin si è detto fermamente contrario ad ogni attualizzazione avventurosa e arbitraria di questa così come di altre opere. Così, l’allestimento certamente pregiato e d’effetto realizzato da lui con Carlo Diappi, scenografo e costumista, potrebbe essere definito, alla fine, “tradizionale”: per la gioia della maggioranza degli spettatori della lirica, che si sente, con regie come questa, molto più a suo agio. Molti i momenti grandiosi o addirittura monumentali della messa in scena (cui gli studiosi del Museo Egizio hanno dato un contributo di consulenza specialistica): stupisce, semmai, e affascina suggestivamente, nello spettacolo, il riaffiorare di tratti primitivi del mondo egizio, in alcune immagini (soprattutto nella citazione di arcaiche e quasi primordiali simbologie religiose) o in alcuni costumi o acconciature, insoliti alla vista quanto filologicamente esatti. Friedkin racchiude tutta la storia verseggiata da Antonio Ghislanzoni tra due baci appassionati e teneri tra Aida e Radames: il primo, all’inizio della vicenda, addirittura durante il Preludio, il secondo nella tomba in cui i due stanno per morire, sepolti vivi. Il regista americano ha mostrato la sua mano ed esperienza nella guida della recitazione dei cantanti, chiamati anche a trasformarsi in autentici attori: a cominciare dai tre protagonisti, Kristin Lewis (Aida), Marco Berti (Radames), Anita Ravchevelishvili (Amneris) capaci anche di qualche finezza e di disegnare sfumature degne di nota. Di ottimo livello – soprattutto - è la parte musicale dello spettacolo: Gianandrea Noseda, sul podio dell’ottima orchestra del Regio, si conferma uno dei “verdiani” più affidabili di questi anni, navigando nel mare magico della partitura verdiana con plasticità e sicurezza. Molto bella, delicata, lirica, l’esecuzione del Preludio, che è parso rivelare – grazie al direttore e agli strumentisti – preziosità musicali e poetiche ancora maggiori di quelli già ben note. La Lewis è un’Aida, oltre che di grande presenza teatrale, di altissimo valore: la sua è una voce passionale e colma di colori emotivi e drammatica, vigorosa eppure capace di diventare celestiale quando è necessario. Scura, corposa, tragica la vocalità dell’Amneris, bruciata dall’amore, della Rachvelishvili, dal volto a lungo completamente dipinto d’oro. Marco Berti, una certezza – non da oggi - del panorama operistico, è un tenore davvero d’altri tempi: nel senso migliore del termine, con i suoi accenti luminosamente chiari ed eroici. Bravi anche gli altri: Giacomo Prestia, un Ramfis minaccioso e torvo, Mark S. Doss il “barbaro” Amonasro (insoddisfacente, però, come attore) e In-Sung-Sin che padroneggia perfettamente la lingua e dà al Re un rilievo e una personalità più accentuati di quanto normalmente accade. Sono gradevoli e disinvolti gli inserti ballettistici coreografati da Marc Ribaud e Anna Maria Bruzzese. Il Coro del Regio si conferma di innegabile qualità.

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