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15 mar 2023

Il ricordo. Scaparro, la parola e la scena

Il ricordo. Scaparro, la parola e la scena

Autore: Giuseppe Liotta / mercoledì 15 marzo 2023 / Categorie: Attualità, Teatro / Vota questo articolo:
4.5

Lo scorso 17 febbraio, all’età di 90 anni è morto Maurizio Scaparro, uno dei più importanti uomini di teatro della seconda metà del ‘900 e regista fra i più rilevanti del suo tempo. Eppure, per tutto il corso della sua vita teatrale, l’establishment teatrale, a parte rarissime eccezioni, ha fatto fatica a riconoscergli questo valore reale e significativo che ha avuto nel mondo dello spettacolo italiano ed europeo. Certamente i suoi molteplici interessi volti ad ideare, inventare, costruire eventi, come il Carnevale della Ragione (solo un apparente ossimoro) nel 1980 alla Biennale Teatro di Venezia, organizzare Convegni Internazionali (“Arte, scienza e potere” a Roma nel 1988, con Arianne Mnouchkine) sulle tante problematiche del teatro, dalla nuova drammaturgia europea, ai nuovi linguaggi della scena, hanno “oscurato”, in qualche modo, la sua lunga e straordinaria attività registica che lo ha portato a dirigere più di settanta spettacoli di prosa, oltre alle regie liriche, tutti con grande successo di pubblico, meno di critica, quasi sempre un po’ tiepida nei suoi confronti. Nato a Roma il 2 settembre del 1932, Maurizio Scaparro appartiene a quella generazione di registi venuta fuori nel dopoguerra e che fra le sue fila annoverava personaggi del calibro di Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Orazio Costa e poi, via via, tutti gli altri che sono venuti dopo: Giancarlo Cobelli, Mario Missiroli, Aldo Trionfo, Massimo Castri e, soprattutto Luca Ronconi. Rispetto a questi, l’interesse per il teatro di Scaparro era, come dire, totale e per nulla autoreferenziale: quello che lo interessava principalmente era il testo e la sua realizzazione migliore. Ma non solo il testo da rappresentare era l’obiettivo del suo lavoro ma tutto quello che viene prima e cosa costruirgli intorno. Dietro ogni sua scelta di spettacolo c’era sempre una originale idea di teatro che la sosteneva, da fare venire fuori ed esaltare in scena prima d’ogni altra cosa: era quindi, essenzialmente, un fatto di teoria e di pedagogia teatrale che aveva come insostituibili strumenti di ricerca la parola e lo spazio, declinati in svariatissime forme di rappresentazione, ma  come offerti nella loro nudità espressiva l’innovativo Amleto del 1978, o il complesso Caligola del 1988, o presentati in imprevedibili e insospettate metamorfosi: Memorie di Adriano (1989), La coscienza di Zeno (2013), il monologo Eleonora, ultima notte a Pittsburgh (Spoleto, 2011), Cyrano di Bergerac (in due edizioni, 1977 e 1995), La bottega del caffè (2015). Ma quello che tutti li tiene è il suo Don Chisciotte. Frammenti di un discorso teatrale (1983), spettacolo multimediale fatto per il teatro, il cinema e la televisione in cui Scaparro si misura con questi tre differenti linguaggi attraversati da quelle tre parole/tema luminose che definiscono e circoscrivono, come meglio non si potrebbe, il senso e la ragione ultima del teatro di Scaparro: il sogno, l’illusione, la follia che sono per lui la materia stessa di cui è fatto il teatro. Insieme all’altro tema costante del rapporto fra politica e potere: dal suo Giulio Cesare shakespeariano del 1978 alla Vita di Galileo del 1988. Oltre alla particolare attenzione nei confronti del repertorio “classico” – Goldoni (Il teatro comico del 1994 e Mémoires del 2004), Pirandello (Enrico IV (1998) e I sei personaggi in cerca d’autore del 2001) – e contemporaneo Massimo Dursi (Stefano Pelloni detto il Passatore del 1973), Saul Bellow (L’ultima analisi del 1971) e Vincenzo Cerami (Teatro Excelsior del 1993). Centrale, in tutto questo, la figura e il ruolo dell’attore, a cui Scaparro si è sempre dedicato con una cura ed attenzione continua sia che avessero i nomi importanti di Giorgio Albertazzi, o Anna Maria Guarnieri, Giuseppe Pambieri, o quelli giovani da “lanciare” sulle tavole di un palcoscenico come Pino Micol, Massimo Ranieri e Franco Branciaroli, protagonista quest’ultimo di un inedito e sorprendente Chlestakov nel Revisore di Gogol (1980). Per non dire dei suoi “fedelissimi” attori che l’hanno seguito in quasi tutte le sue imprese teatrali,  fra i quali ci piace ricordare Fernando Pannullo, Giulio Pizzirani, Gianna Giachetti, Piero Nuti e Orlando Forioso (il danzatore cieco che aveva lavorato con Lindsey Kemp e che aveva artisticamente “adottato”) e dei suoi insostituibili collaboratori Roberto Francia, per le scene, ed Emanuele Luzzati per i costumi. È stato il più “francese” dei registi italiani: Planchon, Barrault, e soprattutto Patrice Chéreau, sono stati dei modelli di riferimento culturale e di etica teatrale preziosi: di questi giganti del teatro, sembra averne assimilato, oltre al magistero registico, anche le raffinatezze intellettuali e comportamentali che lo portarono nel 1983 alla nomina di Directeur adjoint del Théâtre de l'Europe, al fianco di Strehler, e poi alla fondazione e direzione del «Theatre des Italiens» a Parigi: assertore convinto di un Europa della cultura (“Fare l’Europa delle culture e non quella delle banche”) era uno dei suoi motti più ostinati. È stato un uomo-teatro arruolato nelle Istituzioni Pubbliche per portare avanti il suo privato progetto di un teatro “aperto”, che fosse colto e popolare insieme, attento all’innovazione della lingua della scena, alla sperimentazione e alla stessa avanguardia. Ricordo ancora il suo orgoglioso compiacimento quando nel corso di una intervista di tantissimi anni fa (eravamo verso la fine degli anni ’60), mi disse: “…e sai il primo ad avere portato il Living Theatre in Italia sono stato io...”.  Era stato appena nominato Direttore dello Stabile di Bologna. Lo spettacolo era The brig ed aveva appena debuttato ad Avignone. A guardare il Programma di sala di quella stagione teatrale (Coll. Arcangeli. Archiginnasio di Bologna) che proponeva, La venexiana, Ma che cos’è questa crisi, The brig, Candida, Il giuoco delle parti, Il giardino dei ciliegi, La fame di Arlecchino, si colgono tutti gli interessi teatrali di Scaparro e gli sviluppi successivi della sua “idea di teatro”, la sua utopia teatrale: tenere insieme l’alto e il basso, il comico e il drammatico, la sala e la piazza, in quell’unica modalità dettata da una attivissima e sconfinata fantasia teatrale giunta al potere. Era il 1964.

 


Nella foto: Maurizio Scaparro. Archivio Scaparro, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini di Venezia.



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