PESSOA - SINCE I'VE BEEN ME - regia Robert Wilson
Regia, scene e luci di Robert Wilson
Testi di Fernando Pessoa
Drammaturgia di Darryl Pinckney
Costumi: Jacques Reynaud
Interpreti: Maria de Medeiros, Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia
Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau
Co-regia: Charles Chemin
Collaboratrice alla scenografia: Annick Lavallée-Benny
Collaboratore alle luci: Marcello Lumaca
Sound design e consulente musicale: Nick Sagar
Trucco: Véronique Pfluger
Stage manager: Thaiz Bozano. Direttore tecnico: Enrico Maso
Collaboratrice ai costumi: Flavia Ruggeri. Consulente letterario: Bernardo
Haumont
Assistente personale di Robert Wilson: Liam Krumstroh
Commissionato e prodotto da Teatro della Pergola - Firenze e Théâtre de la
Ville – Parigi, coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro
Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à
Paris in collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
Teatro della Pergola, Firenze dal 2 al 12 maggio 2024
Prima Mondiale
Spettacolo in italiano, portoghese, francese, inglese con sovratitoli in
italiano.
Due vite straordinarie, quella
teatrale di Robert Wilson e l’altra letteraria di Fernando Pessoa che si
incontrano per magia scenica nello spazio del Teatro della Pergola di Firenze
armonizzati insieme in uno spettacolo di straordinaria bellezza visiva che
lascia senza fiato per la cura degli infiniti dettagli d’immagine e la
sconfinata, fantasiosa semplicità dei movimenti dei magnifici 7 strepitosi performer
che definire attori o interpreti
risulterebbe colpevolmente riduttivo della loro grazia nello stare in scena e
percorrerla tutta apparendo e scomparendo come da una lavagna luminosa che è
poi la superficie di fondo dello spettacolo che come uno schermo
cinematografico disegna il suo divenire scenico alla Jacques Tati, come un
tempo del divertimento, in questo caso strettamente teatrale. Il suo Hulot, si
chiama invece, Fernando Pessoa, enigmatico, misterioso, impenetrabile
poeta-scrittore portoghese della prima metà del ’900 (muore nel 1935 di cirrosi
epatica) pieno di quei fermenti di un’epoca irripetibile delle avanguardie
artistiche che andava da quelle poetico-letterarie, a quelle pittorico-figurative
e musicali: l’intellettuale lusitano le ha attraversate tutte facendosene
contagiare all’inverosimile ma senza aderire a nessuna, sfiorandole perché
accendessero la sua mente e la sua anima inquieta, perennemente insoddisfatta, tesa
nella costante ricerca di qualcosa che non c’è: fuggire la realtà e sfuggire da
se stessi moltiplicandosi in altri fittizi eteronomi e trovare rifugio e
conforto in quella “divina irrealtà delle cose” che ha la sostanza
immateriale dei sogni, fra il surrealismo onirico di Dalì e le problematiche
pirandelliane della moltiplicazione dell’”io”. Il paradosso, il frammento, la scrittura aforistica,
epigrammatica, i “detti e contraddetti” alla Karl Kraus sono le sue armi di
difesa dall’offesa del mondo ed anche dell’essere nato, dove ciò che non è mai
accaduto continua a vivere nella testa degli altri fino a diventare la cosa più
importante dell’esistenza umana. Impalpabile come un uomo di fumo, Pessoa ci
accoglie seduto ai bordi del proscenio con le gambette penzolanti nel vuoto,
coi baffetti alla Charlot e le movenze aggraziate di Maria de Medeiros, una
figurina rifilata da film muto col suo bell’ “occhio di bue” che la riprende
per immetterla in una rappresentazione che prende sempre più la strada del
musical americano, delle Ziegfeld Follies, della slapstick comedy
con Gianfranco Poddighe che si diverte a fare Groucho Marx, sorretta da una
efficace e riconoscibile colonna sonora che ci rimanda a quell’epoca d’oro del
cinema d’oltreoceano, dove si imprime nella mente l’ultima sequenza dello
spettacolo con quei marinai vestiti come Gene Kelly e Frank Sinatra in Un
giorno a New York. Gli attori dicono le loro battute, a volte ripetute in lingue diverse, senza enfasi
interpretativa, ma con la fermezza
dell’espressione, della parola sentenziosa, definitiva, così come sono
riportate le frasi, i brani rimontati drammaturgicamente da vari libri di
Pessoa (Il custode di greggi, Il violinista pazzo, Il libro dell’inquietudine,
solo per citarne alcuni) seguendo le tre stagioni della vita di Pessoa (giovinezza,
maturità, vecchiaia), da Darryl Pinckney in una chiave più “musicale” che dei
contenuti, o delle riflessioni filosofiche, o del linguaggio poetico. Perché
ciò che tiene tutto insieme alla fine è solamente lo sguardo del texano dagli
occhi di ghiaccio, le sue visioni, il suo immaginario, il suo creare
un’illusione teatrale inseparabile dalla realtà del palcoscenico, la sua
ineffabile scrittura scenica costruita passo dopo passo, luce dopo luce, in
superficie e in profondità, attraverso un lavoro invisibile eppure concreto di
regia creativa che procede per allegorie manifeste e che in questo suo ultimo
spettacolo sembra volere rendere omaggio ad Alexander Calder e alla sua metafisica “spazialità” in
movimento. Pantomima, danza, balletto, teatro d’animazione sono i linguaggi
espressivi usati da Bob Wilson per dare solidità ed efficacia ad un profluvio
di immagini senza sosta, coloratissime, che passano senza soluzione di continuità
dal rosso acceso al bianco luminescente, a sfumature più tenui, sostenute da
una colonna sonora fatta di musiche d’antan statunitensi - charleston, jazz,
ragtime – e di rumori assordanti come la pioggia battente, o improvvisi e
squillanti come l’ora del diavolo. Da quando c’è Bob Wilson, il teatro è anche
un’altra cosa.
Foto di copertina. Wilson Pessoa - Ferreira, Suaudeau, Belibi. Ph. Lucie Jansch
Wilson Pessoa - De Medeiros, Poddighe. Ph. Lucie Jansch
Wilson Pessoa. Cast
Wilson Pessoa. De Medeiros. Ph. Lucie Jansch
Wilson Pessoa. Cast. Ph. Lucie Jansch
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