LA TRAGICA STORIA DEL DOTTOR FAUST di Christopher Marlowe. Traduzione in versi di Rodolfo Wilcock. Costumi di Annalisa Di Piero. Musiche di Francesco Verdinelli. Con Edoardo Siravo, Antonio Salines, Francesca Bianco, Fabrizio Bordignon, Gabriella Casali, Giuseppe Cattani, Germano Rubbi, Roberto Tesconi, Anna Paola Vellaccio. Regia di Carlo Emilio Lerici. 1 Agosto 2019 Festival Internazionale Teatro Romano. Volterra
Rispetto alla potenza e alla bellezza del testo di Marlowe sono state molto rare le rappresentazioni in Italia di una tragedia elisabettiana in versi che, rispetto ai drammi shakespeariani, pone enormi problemi di traduzione dal punto di vista linguistico, della forma teatrale, spesso della stessa attribuzione di battute ai personaggi nonché, direi soprattutto, di quel tessuto “non verbale” dove risiede prevalentemente la sostanza stessa di una struttura testuale così riccamente codificata. Anche il tema trattato per essere condiviso da uno spettatore/lettore contemporaneo necessita di un contesto culturale e sociale, storico e geografico troppo specifico e limitato nel tempo per valere ancora oggi come spia di qualcosa che ci possa ancora riguardare. Senza contare che, con una piccola variazione del tema, Goethe qualche secolo dopo (1831) ha scritto quel capolavoro di “poema drammatico” in cui una storia d’amore incrociava il bisogno di Assoluto e quella sete di conoscenza indissolubilmente legate all’animo umano e al suo destino sulla Terra in ogni tempo, futuro compreso. Così che The Tragical History of Doctor Faustus (1587) è rimasta soltanto un’opera molto problematica da mettere in scena, interessante quindi qualsiasi tentativo ci sia stato di misurarsi sul piano scenico ad un suo plausibile allestimento, tenendo anche conto del numero enorme dei personaggi e dei loro eventuali interpreti (24 dramatis personae). In effetti gli spettacoli più importanti e significativi sono stati quelli che hanno “adattato” il testo originale alle particolari idee di teatro dei nuovi autori della scena contemporanea: il regista e l’attore. È stato il caso di J. Grotowski nella sua edizione del 1962, e dell’originale “scrittura di scena”, una vera e propria “partitura drammatica”, scritta da Aldo Trionfo e Lorenzo Salveti Faust Marlowe–Burlesque (1976), con Carmelo Bene e Franco Branciaroli, ripreso di recente da Massimo Di Michele e Federica Rosellini (2014); mentre realizzazioni più vicine al testo originale sono state il film televisivo di Leandro Castellani con Tino Buazzelli (Faust) e Antonio Salines (Mefistofele) (1978), e infine, l’adattamento e regia di Flavio Ambrosini per il Teatro Stabile di Torino, Doctor Faust (1982), con Roberto Herlitzka e Alessandro Haber, protagonisti principali in una versione in cui come sostiene Roberto Alonge, “il nesso che unisce Mefistofele a Faust non è affatto quello da servo a padrone bensì quello di compagno di vita”. E infine Faust ovvero Arricogghiti u filu di Vincenzo Pirrotta (2018). Di tutte le possibili “messe in scena” il regista Carlo Emilio Lerici punta soprattutto sulla versione “in versi” curata da Rodolfo Wilcok nel 1966 da cui tuttavia non ricava il massimo di potenzialità teatrale dal blank verse originale (un pentametro giambico non rimato) che in questo ultimo allestimento scenico dell’opera si traduce in una forma di prosa drammatizzata molto esteriorizzata che permette ad Antonio Salines a quasi quarant’anni di distanza dalla sua prima volta in questa parte di regalarci una interpretazione fatta di sottintesi, sfumature, obliquità comportamentali, trame nascoste, e a Edoardo Siravo di imporre sulla scena la natura nobile e volgare, mai prepotente, ambiziosa e saggia, mai spinta verso la follia, del suo Faust, forse spinto sempre alla costante ricerca di una innocenza perduta. Affida la parte del Coro ad una sola attrice (una solida e disinvolta Francesca Bianco) non estraniandola dall’azione tragica, assegnandole la funzione di narratrice epica, in senso brechtiano, dei vari eventi che si susseguono come nei morality plays elisabettiani, mentre Anna Paola Vellaccio si disegna varie parti, ambigue e seduttive, ove disinvoltamente divertite. Agli altri attori l’onere di più ruoli, anche fra di loro contraddittori, che risolvono con destrezza scenica. Le psicologie dei vari personaggi sembrano inseguirsi senza una precisa meta, in una azione drammatica sostanzialmente bloccata dai contrasti personali e dalle parole che i personaggi si scambiano, con forza o in maniera colloquiale. Tuttavia la rappresentazione, intervallata da musiche rock composte appositamente da Francesco Verdinelli, con i costumi ideati da Annalisa Di Piero, fra Ottocento e tardo Medio Evo, non riesce a liberarsi dal suo carattere di “dramma intimo” strindberghiano, “da camera” (seppur visto all’aperto nella splendida cornice del Teatro Romano di Volterra), a cui lo spettacolo sembra, alla fine, forse involontariamente, tendere.
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