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NELLE CELLE, IN VISITA AL MONDO DI JEAN GENET

NELLE CELLE, IN VISITA AL MONDO DI JEAN GENET

Volterrateatro: è dedicato al trasgressivo scrittore francese lo spettacolo 2013 dei detenuti della Compagnia della Fortezza (che festeggia 25 anni di attività)

Autore: Anonym/domenica 28 luglio 2013/Categorie: Attualità, Teatro, Italia, Toscana

Da venticinque anni il festival Volterrateatro ospita, ogni estate, lo spettacolo della Compagnia della Fortezza: un ensemble composto, a parte il regista – e sempre più spesso anche attore, e primattore – Armando Punzo, esclusivamente da detenuti, quelli (in genere condannati a lunghe pene detentive), del carcere di Volterra, ospitato in una fortezza medicea poderosa, costruita fra Trecento e Quattrocento. 

All’inizio, lo spettacolo dei detenuti della Fortezza era solo uno degli eventi del Festival (fondato da Vittorio Gassman); ma poi, progressivamente, è cresciuto di importanza fino a diventarne il clou indiscusso: in parallelo con un lento percorso che, grazie indiscutibilmente alle idee di Punzo, ha portato questa esperienza di teatro-carcere ad andare molto al di là dei limiti usuali di questi lavori. 

Il teatro con i detenuti ha saputo arrivare, infatti, ma soltanto a Volterra, a diventare uno spazio privilegiato di ricerca e di sperimentazione, a livello assoluto, di creatività di tipo nuovo e “totale” con e sull’attore, sulla loro personalità e sulla loro presenza fisica. Un teatro dal senso e della necessità spesso più profondi di quelli del teatro “normale”, quello che tutti conoscono, che si svolge fuori dalle prigioni, nei teatri, con attori professionisti per le sale tradizionali o per gli spazi consacrati agli spettacoli d’avanguardia. Ancora una volta, così, a fine luglio, i detenuti guidano il numeroso pubblico – che deve richiedere un apposito permesso di ingresso nella Fortezza – per i cortili, i corridoi e le celle, convertiti in luogo di spettacolo di grande suggestione, che pure fa dimenticare quello che questo luogo è. 

Brecht, Rabelais, Peter Handke, Shakespeare, perfino Lewis Carroll alcuni degli autori sui quali hanno lavorato, nel tempo, i detenuti sotto la guida di Punzo: quest’anno tocca al trasgressivo, “scandaloso” Jean Genet, per “Santo Genet commediante e martire”, lo stesso titolo del celebre scritto di Jean-Paul Sartre che rivelò questo narratore e drammaturgo “maledetto” e irregolare al mondo culturale francese. 

Cantore dell’omosessualità – in termini insieme poetici ed estremamente espliciti – e di una devianza criminale sublimata e trasformata quasi in un elemento sacrale ed estetico (Genet fu incarcerato fin da ragazzo, e conosceva di prima mano il mondo dei delinquenti e della prigione, da lui descritto tra l’altro nel dramma “Alta sorveglianza”). Un universo, il suo, fastoso e degradato, santo e provocatorio, lirico e violento, blasfemo ed estetizzante, che si materializza in tante opere i cui personaggi (Divina di “nostra signora dei Fiori”, “I negri”, Querelle di “Querelle de Brest” e tanti altri) prendono vita, nello spettacolo, in un interno soffocante tutto velluti e specchi, salotti e boudoir, in cui il pubblico si perde e si affolla in maniera inverosimile in mezzo agli attori, in gran parte improbabilmente travestiti da donna o comunque trasformati in figure sessualmente ambigue, retrò come tutto il contesto. 

Tra gli interpreti, che negli anni sono diventati attori di grande intensità e grande forza, anche Aniello Arena che ha vinto il Nastro d’Argento per la migliore interpretazione, nel il film “reality” di Matteo Garrone (premiato a Cannes): e lo stesso Punzo, trasformato da costume e trucco in maniera quasi irriconoscibile, che legge frasi rivelatrici in cui si riassume la motivazione, se non il senso centrale, dello spettacolo. 

Portare Genet in carcere non è un caso, visto che scriveva frasi come “Le rosse rosse e gli ergastolani (….) sono della medesima natura”, oppure proclamava – e qui si va nell’autobiografico, per Armando Punzo teatrante ed artista – la fierezza poetica di non avere visto mai nel carcere quello che tutti gli altri, vedono: ma un luogo, invece, in cui si manifesta una realtà diversa, una visionarietà lirica bruciante e spasmodica, insopprimibile e irriducibile. Da notare, però, che il copione risparmia la pubblico le crudezze più aspre della scrittura di Genet, che soprattutto nell’evocazione dei rapporti omosessuali usa spesso termini quanto mai espliciti. 

E’ come se, del mondo di Genet, si fosse voluta rendere teatralmente viva, tangibile soprattutto il clima poetico ed estetico.


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