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ALBERTAZZI, ADDIO AD UN RE DEL PALCOSCENICO

ALBERTAZZI, ADDIO AD UN RE DEL PALCOSCENICO

Grandissimo attore, un monumento del teatro che ha unito classicità di stile e desiderio di utilizzare nuovi linguaggi. La scomparsa a quasi 93 anni nella Maremma toscana

Autore: Anonym/lunedì 30 maggio 2016/Categorie: Attualità, Teatro, Italia, Toscana

Giorgio Albertazzi ci ha lasciato a tre mesi dal suo 93esimo compleanno. Fino a pochi mesi fa è rimasto pacificamente al suo posto, nella sua casa di sempre: il palcoscenico. Da primattore: sempre più, negli ultimi anni, anche autore – dichiaratamente o meno - dei suoi spettacoli. Mattatore d’alta scuola, in teatro, ma anche in luoghi non teatrali, come la Villa Adriana di Tivoli in cui nacque nel 1989 il mitico “Memorie di Adriano”, dal romanzo di Marguerite Yourcenar. Uno spettacolo-evento creato proprio ‘a casa’ dell’imperatore che – raccontava Albertazzi – aveva la prima attrattiva, su di lui, di essere vissuto in un’epoca in cui le antiche certezze filosofiche e spirituali erano svanite e se ne cercavano, anche faticosamente, di nuove. Un’epoca proprio come la nostra, diceva l’attore fiesolano, che pure – non abbandonando più, di fatto, questo cavallo di battaglia diretto dal regista Maurizio Scaparro – finì per trasformare il colto imperatore romano, tormentato eppure infaticabile nell’abbeverarsi a tutte le bellezze e le esperienze della vita (fisica e intellettuale) in un rispecchiamento, una alter ego, un doppio di sé stesso. In questi giorni fitti di commemorazioni molte volte si è riascoltato e rivisto l’emozionante finale delle “Memorie”, in cui Adriano-Albertazzi ripeteva l’invito dell’imperatore a se stesso ad “entrare nella morte ad occhi aperti”. Battuta che – racconta spesso Scaparro – l’attore decise di recitare con un sorriso in volto, proprio in extremis, alla vigilia della prima: su suggerimento dello stesso regista. Il rapporto artistico tra Albertazzi e Scaparro è durato molti anni, e ha portato altri frutti: una volta, parlando con chi scrive, l’attore ci disse che il regista ideale doveva essere come Scaparro, “un interlocutore poetico”, una sponda autorevole e sensibile, e non un demiurgo della scena, un “tiranno” (in senso artistico e teatrale) che imponesse il suo volere agli interpreti.
Al momento della morte ci si è resi conto di come Albertazzi fosse tuttora un personaggio che divideva il mondo teatrale: e non soltanto quello teatrale, visto il riaffiorare ricorrente e periodico delle accuse politiche legate alla sua militanza nelle forze della Repubblica Sociale. L’amico di Albertazzi Oliviero Beha, nel discorso al breve saluto funebre privato alla Pescaia de’ Tolomei, vicino a Roccastrada, in Toscana, la tenuta della moglie Pia, dove l’attore è morto, ha detto che riparlare di Albertazzi fascista “sarebbe come se si rimproverasse a Dante di essere stato ghibellino”. Non tutti, probabilmente, saranno d’accordo. Ma, a parte questo, quello che è certo è che anche nel mondo del palcoscenico, spesso vittima di mode e di confuse istanze di rinnovamento a tutti i costi, Albertazzi era un monumento, un modello di classicità interpretativa per alcuni, e l’incarnazione della più abusata e superata tradizione per altri. Una valutazione, quest’ultima, ingiustissima per un uomo di teatro che più volte ha scelto, nel suo percorso artistico, di mettersi completamente in discussione, tentando coraggiosamente mille strade e ricominciando – per così dire – anche da capo. Ferma restando la fedeltà ai mezzi sempreverdi e inossidabili dell’autentica arte dell’attore, a dettami e regole che per tanti oggi sembrano passati di moda.
Ad un Albertazzi artista di cui è impossibile negare in buona fede la grandezza (pensiamo alle sue prove nei templi shakespeariani inglesi) si sovrapponeva di frequente un Albertazzi personaggio: politico, civile, intellettuale, amante di prese di posizione paradossali, polemiche, a vote provocatorie ed eccentriche. Un personaggio trasgressivo, per di più dal privato vistoso, chiacchierato, ingombrante. Un aspetto esteriore al quale però, forse, non corrispondeva quella che era la sua vera essenza, molto più normale, di uomo e di maestro anche di vita, di grande autorevolezza e moralità.
Il teatro, s’è detto, è stato la sua casa: a cominciare dal leggendario, stellare “Troilo e Cressida” di circa 65 anni fa di Visconti nel Giardino di Boboli a Firenze fino all’ultimo “Mercante di Venezia” (ancora Shakespeare!), passando per innumerevoli titoli con cui ha attraversato tutti i generi di drammaturgia (senza dimenticare esperimenti come – per fare solo un esempio… - i “matrimoni” tra recitazione e musica jazz). Ma non sarebbe giusto ignorare le sue numerose incursioni nel cinema – prima di tutto “L’anno scorso a Marienbad”, storico cult di Resnais, ma anche “Eva” e “L’assassinio di Trotsky” di Losey – così come di primo piano e di enorme rilevo è stata la sua lunghissima attività in televisione. Fu un divo e un mattatore del piccolo schermo in bianco e nero, nell’epoca felice in cui non solo la televisione - con i famosi, indimenticabili sceneggiati di provenienza letteraria - faceva effettivamente cultura, ma in cui era anche possibile che tra scena e piccolo schermo ci fosse una sorta di sinergia virtuosa per la quale gli attori trascinavano nelle sale dei teatri, per proposte magari più difficili e di frontiera, gli spettatori che li seguivano con passione ed amore nei programmi tv.

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