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Pessoa e Wilson, artisti allo specchio

Pessoa e Wilson, artisti allo specchio

In "prima mondiale" alla Pergola di Firenze un memorabile spettacolo di Bob Wilson su testi di Fernando Pessoa. Divertimento, strepitosa bellezza visiva e riflessioni sulla vita si intrecciano in un caleidoscopio di immagini che prendono spunto da vari generi teatrali, dal Varietà al Musical americano. Magnifici tutti gli interpreti che si misurano in vari ruoli. Grande successo di pubblico.

Autore: Giuseppe Liotta/sabato 11 maggio 2024/Categorie: Attualità, Teatro, Italia, Toscana

 

PESSOA - SINCE I'VE BEEN ME - regia Robert Wilson

Regia, scene e luci di Robert Wilson
Testi di Fernando Pessoa
Drammaturgia di Darryl Pinckney
Costumi: Jacques Reynaud
Interpreti: Maria de Medeiros, Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau
Co-regia: Charles Chemin
Collaboratrice alla scenografia: Annick Lavallée-Benny
Collaboratore alle luci: Marcello Lumaca
Sound design e consulente musicale: Nick Sagar
Trucco: Véronique Pfluger
Stage manager: Thaiz Bozano. Direttore tecnico: Enrico Maso
Collaboratrice ai costumi: Flavia Ruggeri. Consulente letterario: Bernardo Haumont
Assistente personale di Robert Wilson: Liam Krumstroh
Commissionato e prodotto da Teatro della Pergola - Firenze e Théâtre de la Ville – Parigi, coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à Paris in collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
Teatro della Pergola, Firenze dal 2 al 12 maggio 2024
Prima Mondiale
Spettacolo in italiano, portoghese, francese, inglese con sovratitoli in italiano.

 

Due vite straordinarie, quella teatrale di Robert Wilson e l’altra letteraria di Fernando Pessoa che si incontrano per magia scenica nello spazio del Teatro della Pergola di Firenze armonizzati insieme in uno spettacolo di straordinaria bellezza visiva che lascia senza fiato per la cura degli infiniti dettagli d’immagine e la sconfinata, fantasiosa semplicità dei movimenti dei magnifici 7 strepitosi performer  che definire attori o interpreti risulterebbe colpevolmente riduttivo della loro grazia nello stare in scena e percorrerla tutta apparendo e scomparendo come da una lavagna luminosa che è poi la superficie di fondo dello spettacolo che come uno schermo cinematografico disegna il suo divenire scenico alla Jacques Tati, come un tempo del divertimento, in questo caso strettamente teatrale. Il suo Hulot, si chiama invece, Fernando Pessoa, enigmatico, misterioso, impenetrabile poeta-scrittore portoghese della prima metà del ’900 (muore nel 1935 di cirrosi epatica) pieno di quei fermenti di un’epoca irripetibile delle avanguardie artistiche che andava da quelle poetico-letterarie, a quelle pittorico-figurative e musicali: l’intellettuale lusitano le ha attraversate tutte facendosene contagiare all’inverosimile ma senza aderire a nessuna, sfiorandole perché accendessero la sua mente e la sua anima inquieta, perennemente insoddisfatta, tesa nella costante ricerca di qualcosa che non c’è: fuggire la realtà e sfuggire da se stessi moltiplicandosi in altri fittizi eteronomi e trovare rifugio e conforto in quella “divina irrealtà delle cose” che ha la sostanza immateriale dei sogni, fra il surrealismo onirico di Dalì e le problematiche pirandelliane della moltiplicazione dell’”io”.  Il paradosso, il frammento, la scrittura aforistica, epigrammatica, i “detti e contraddetti” alla Karl Kraus sono le sue armi di difesa dall’offesa del mondo ed anche dell’essere nato, dove ciò che non è mai accaduto continua a vivere nella testa degli altri fino a diventare la cosa più importante dell’esistenza umana. Impalpabile come un uomo di fumo, Pessoa ci accoglie seduto ai bordi del proscenio con le gambette penzolanti nel vuoto, coi baffetti alla Charlot e le movenze aggraziate di Maria de Medeiros, una figurina rifilata da film muto col suo bell’ “occhio di bue” che la riprende per immetterla in una rappresentazione che prende sempre più la strada del musical americano, delle Ziegfeld Follies, della slapstick comedy con Gianfranco Poddighe che si diverte a fare Groucho Marx, sorretta da una efficace e riconoscibile colonna sonora che ci rimanda a quell’epoca d’oro del cinema d’oltreoceano, dove si imprime nella mente l’ultima sequenza dello spettacolo con quei marinai vestiti come Gene Kelly e Frank Sinatra in Un giorno a New York. Gli attori dicono le loro battute, a volte ripetute  in lingue diverse, senza enfasi interpretativa,  ma con la fermezza dell’espressione, della parola sentenziosa, definitiva, così come sono riportate le frasi, i brani rimontati drammaturgicamente da vari libri di Pessoa (Il custode di greggi, Il violinista pazzo, Il libro dell’inquietudine, solo per citarne alcuni) seguendo le tre stagioni della vita di Pessoa (giovinezza, maturità, vecchiaia), da Darryl Pinckney in una chiave più “musicale” che dei contenuti, o delle riflessioni filosofiche, o del linguaggio poetico. Perché ciò che tiene tutto insieme alla fine è solamente lo sguardo del texano dagli occhi di ghiaccio, le sue visioni, il suo immaginario, il suo creare un’illusione teatrale inseparabile dalla realtà del palcoscenico, la sua ineffabile scrittura scenica costruita passo dopo passo, luce dopo luce, in superficie e in profondità, attraverso un lavoro invisibile eppure concreto di regia creativa che procede per allegorie manifeste e che in questo suo ultimo spettacolo sembra volere rendere omaggio ad Alexander Calder e  alla sua metafisica “spazialità” in movimento. Pantomima, danza, balletto, teatro d’animazione sono i linguaggi espressivi usati da Bob Wilson per dare solidità ed efficacia ad un profluvio di immagini senza sosta, coloratissime, che passano senza soluzione di continuità dal rosso acceso al bianco luminescente, a sfumature più tenui, sostenute da una colonna sonora fatta di musiche d’antan statunitensi - charleston, jazz, ragtime – e di rumori assordanti come la pioggia battente, o improvvisi e squillanti come l’ora del diavolo. Da quando c’è Bob Wilson, il teatro è anche un’altra cosa.  

   

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