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Beethoven in Vermont

Beethoven in Vermont

Dalla "felicissima intuizione drammaturgica di Maria Letizia Compatangelo", uno spettacolo molto "speciale" che diventa "simbolo di riscatto politico e culturale dalla barbarie del nazismo, nonché di educazione musicale e di rinascita umana sotto il segno di Beethoven".

Autore: Giuseppe Liotta/lunedì 8 novembre 2021/Categorie: Attualità, Teatro, Italia

Beethoven in Vermont

Uno spettacolo scritto e diretto da Maria Letizia Compatangelo, con il Trio Metamorphosi  (Mauro Loguercio, Francesco Pepicelli e Angelo Pepicelli). Costumi di Roberta Sileo, Musiche di Ludwig van Beethoven. Terni (Teatro Secci), Pordenone (Teatro Verdi).

Ha la leggerezza di Venere e il professore ("A song is born" - 1948, Howard Hawks, sceneggiatura di Billy Wilder) questa commedia musicale che, invece che al musical americano, ruba note e pentagramma al classico concerto da camera per trio (pianoforte, violino e violoncello) capovolgendone la tessitura sonora e la sintassi ritmica in un fraseggio jazz di accattivante e, per molti versi divertente, ascolto. Più precisamente si fa riferimento al Concerto di inaugurazione del “Malboro Music Festival”  che  nell’estate del 1951 si svolse nel Vermont, fortemente voluto da tre musicisti esuli dalla Germania nazista: Adolf Busch, Herman Busch e Rudolf Serkin, impersonati rispettivamente da un incalzante Mauro Loguercio e dai disinvolti e brillanti Francesco e Angelo Pepicelli. Lo spettacolo, proposto con felicissima intuizione drammaturgica da Maria Letizia Compatangelo, racconta la storia di quell’evento sperduto fra le montagne del Nord-America e ne fa un simbolo di riscatto politico e culturale dalla barbarie del nazismo, nonché di educazione musicale e di rinascita umana sotto il segno di Beethoven.

Un evento assolutamente “speciale” quello di 70 anni fa che ha mantenuto il suo carattere di eccezionalità anche a distanza di tutti questi anni per il forte impegno della regista e dei tre straordinari esecutori e interpreti entusiasti nel ripercorrere le vicende artistiche e di vita di quei coraggiosi e spavaldi musicisti che, esuli politici in una terra straniera di cui non conoscevano né lingua né abitudini, tentarono l’impresa di unire le persone attraverso il linguaggio universale della musica. La Vecchia Europa, forte della sua millenaria cultura e dei suoi geni musicali, a confronto col Nuovo Mondo, che sul piano della creatività musicale aveva molto da imparare, ma dove ha già fatto la sua apparizione il jazz, la musica dei poveri d’America che sta conquistando le élites culturali del tempo: i loro allievi sono giovani americani che hanno sete di conoscere e di sperimentare: il Concerto d’apertura del Festival sarà un successo, ma quello che veramente conta è come ci si era arrivati.

E qui, Maria Letizia Compatangelo tesse una trama di relazioni, incontri, dubbi, sospensioni, rilanci in un testo molto fluido e accattivante in cui ricostruisce, immaginandola, la vigilia di quello storico debutto, affidando le sue parole agli stessi musicisti che suonano in scena e che le interpretano con quella leggerezza, entusiasmo e partecipazione da rappresentare un felice unicum performativo, in quel fluido dialogo fra di loro, da sophisticated comedy, e i loro stessi strumenti e che forse si sarebbe potuto anche estendere ad Irene, la moglie di Rudolf e figlia di Adolf, violinista anch’essa e che sta dando una mano in cucina. Ma, quale potrà essere il programma musicale da presentare per quel primo concerto che voleva testimoniare la fine dall’incubo nazista e l’inizio di una nuova era democratica: Adolf, Hermann e Rudolf uniti da legami famigliari e professionali se lo chiedono molte volte, in quel capannone-granaio dove avevano aperto una scuola frequentata da allievi appassionati alla musica dei geni europei  Schubert, Mozart, Haydn, Dvorak, Ravel, Debussy: andare a pescare in quel repertorio a loro conosciuto e molte volte eseguito, o cercare qualcosa di nuovo, di inedito, una musica più universale? Ed è così che viene fuori il nome di Beethoven e il suo Trio per l’Arciduca, (1811) la partitura per pianoforte e archi op. 97 amata dal grande musicista tedesco e che si dice avesse sul suo comodino vicino al letto di morte, su cui cadrà la scelta definitiva.

In questa rappresentazione si parla di vita e di gioia, e di un sogno che quando si realizza diventa un ponte da attraversare per le generazioni future.

Applausi calorosi e insistiti alla fine di uno spettacolo teatrale inconsueto e davvero molto “speciale”.

 

 

 

 

Trio Metamorphosi. Foto di Giorgio Mostarda

 

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