Strano destino quello della Tavola Doria. Il dipinto
cinquecentesco, chiamato anche “Gruppo di cavalli”, che ha la sfortuna di
rappresentare con un linguaggio figurativo molto vicino a quello di Leonardo da
Vinci un momento saliente della Battaglia di Anghiari – la lotta per lo
stendardo – è tornato in Italia, dopo aver fatto perdere le proprie tracce per
circa settant’anni. A donarlo è niente meno che il Fuji Art Museum di Tokyo.
Se
non è dato sapere con esattezza come ha fatto un olio su tela di incerta
attribuzione, ma assicurato per un valore di circa diciotto milioni di euro, a
raggiungere il Giappone, quello che non si può non notare è come, dalle culture
millenarie d’oriente, gli occidentali abbiano ancora molto da imparare. “Pensiamo
e agiamo per contribuire alla cultura mondiale; l’importanza della ricerca e la
possibilità di mostrare questo dipinto al maggior numero di persone possibile è
un’occasione imperdibile per l’arte stessa”, afferma il direttore del Fuji Art
Museum Akira Gokita. In quest’ottica si inquadrano, infatti, gli accordi sulla
donazione: l’opera resterà esposta fino al 13 gennaio 2013 al Quirinale per
passare poi all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, dove potrà essere
analizzata; da qui inizierà una nuova serie di viaggi. Per ventisei anni la
Tavola Doria viaggerà fra il Giappone e l’Italia, dove resterà in modo
definitivo, probabilmente agli Uffizi di Firenze. L’idea fondante di
quest’operazione è quella di avviare un prolifico scambio culturale fra i due
Paesi le cui rispettive storie artistiche sono fonte inesauribile di
meraviglia.
Il recupero della tavola è da attribuire al merito del
Comando Carabinieri Patrimonio Culturale che, dalla fine degli anni ’30,
periodo in cui il dipinto ha preso la via dell’estero, hanno condotto indagini
fino a rintracciarla nel Museo nipponico che l’aveva acquistata in buona fede.
Se questa fosse una favola, sarebbero molte le
lezioni da trarne: da una privata per la famiglia Doria, a cui vanno solo le
domande sul come e perché si sia privata di tale capolavoro; allo stato
italiano che, seppur in un momento difficile della sua storia, non ha saputo
tenere stretta un’opera d’are il cui valore, a prescindere dalla paternità, è
pressoché inestimabile; alla buona fede dei giapponesi che hanno acquistato (a
cuor leggero?) un “quasi” Leonardo da Vinci. Se, ancora, di favola si
trattasse, si potrebbe chiosare con un “tutto è bene quel che finisce bene” ma,
in questa particolare circostanza, sembra molto più realistico abbandonarsi a
un liberatorio sospiro di sollievo con l’augurio che tali doni, per quanto
graditi, non si debbano più ricevere.