Per dire di sì gli indiani scuotono la testa esattamente come noi quando vogliamo dire di no. È questa una delle più nette differenze che dividono l'Oriente dall'Occidente. (Ercole Patti)
India. Probabilmente non esiste un’altra parola che richiama alla mente una sequenza di immagini così diverse tra loro: dalle bellissime danzatrici dei musical bollywoodiani con i vestiti sgargianti che interpretano le storielle d’amore, ai santoni che praticano lo yoga cercando di comprendere l’universo; dalle affascinanti storie di nascite e cadute degli imperi come quello di Moghul, ai magnifici edifici lasciati da loro in eredità. Il mausoleo di marmo bianco Taj Mahal è soltanto uno degli straordinari esempi di architettura. L’India è la patria delle menti eccezionali come Rabindranath Tagore e Mahatma Gandhi, ma è anche di Siddhartha Gautama e con lui del pensiero filosofico buddhista diffuso in tutta l’Asia. Vengono in mente le fragranze di spezie, le immagini di bazar colmi di frutta e verdura, le donne con i loro coloratissimi sari e gli uomini con i turbanti altrettanto colorati.
Ho sentito dire che l’India è magica e imprevedibile. Al mio arrivo a New Delhi ero pienamente convinta soltanto dell’ultima affermazione.
Imprevedibile, poiché il primo impatto ebbe un effetto che non avrei mai potuto immaginare. All’avvicinarsi alla capitale, la grigia nebbiolina dello smog lasciava intravedere le specie di baracche fatte di fogli di plastica e di cartone. Sono gli slum, o baraccopoli, quali si trovano nelle periferie delle grandi città. Il misterioso scenario si addolcisce di poco spostandosi all’interno dei centri abitati. Le strade sono sporche come anche gli abitanti. I rifiuti sono ammassati sui marciapiedi, dove i cani, le mucche, i maiali, i corvi e gli umani pullulano in ricerca di cibo. Agli odori di spezie si sovrappongono quelli di sudicio e fogne. È un’abitudine molto comune, come avrei capito in seguito, quella di fare i propri bisogni lungo la strada.
Il quadro si completa con il folle traffico dei viali traboccanti di camion, macchine, motorini, tuktuk e persone che si muovono freneticamente accompagnati dal frastuono dei motori e di clacson a ripetizione continua.
Ho cominciato a domandarmi seriamente, cosa ci potesse essere di così magico da attirare l’attenzione di tanti occidentali. Cosa può esserci al di fuori della semplice curiosità a livello turistico? Perché tornare e ritornare in questo luogo come fanno tante persone che conosco? Quale fascino nasconde questo caos infernale?
Ovunque guardassi vedevo solo povertà e sporcizia. Al tramonto milioni di senzatetto si accovacciano negli angoli delle strade e lungo il marciapiede per trascorrere la notte. Guidatori di risciò e tuktuk dormono spesso direttamente dentro i propri mezzi. Fino al mattino le vie sono rivestite di grigie e impolverate coperte che avvolgono i corpi dormienti dei propri padroni. Sono così tante che bisogna fare attenzione a dove mettere i piedi.
Mi sono chiesta che razza di sistema o religione può tollerare una cosa del genere?
Probabilmente nessuna informazione accumulata prima della partenza può preparare abbastanza all’impatto. Non si può essere pronti all’India, come non si può prevedere l’effetto che farà. Una cosa è certa, nessuno rimane indifferente.
Girando per la capitale mi sono trovata nel cuore di Nuova Delhi situata intorno ai due principali viali Rajpath e Janpath. Il contrasto tra quello che avevo visto prima era sconcertante. La graziosa parte della città costruita dagli inglesi era pulita e ordinata. Bellissimi palazzi e residenze governative si ergevano accanto agli spazi verdi. Le auto lussuose entravano e uscivano dai grossi cancelli di ferro. Tutto ciò che era intorno aveva l’odore del denaro.
Il doppio aspetto dell’India si rispecchia nei dati economici, dove si afferma come grande potenza mondiale con il PIL in crescita e nello stesso momento un Paese in via di sviluppo. Nonostante che un terzo della popolazione indiana viva al di sotto della soglia di povertà (Human Development Report, UNDP) nella lista degli uomini più ricchi del mondo secondo Forbes nel 2010 c’erano due signori indiani. Sceso al diciannovesimo posto nel 2011 della statistica mondiale, Mukesh Ambani è comunque l’uomo più ricco dell’India. La sua abitazione a Mumbai è considerata la più costosa al mondo; ha ventisette piani, e nel suo interno ci sono appartamenti, piscine, sale da ballo, cinema e piste di atterraggio per elicotteri.
Presto ho capito che il contrasto e la contradizione sono le caratteristiche che dominano ogni angolo di questo Paese.
Malgrado che i negozi di informatica propongano i nuovi software tecnologicamente avanzati, la gran parte della popolazione continua a spostarsi con i mezzi di trasporto medievali. Mentre i moderni centri commerciali offrono i prodotti confezionati, all’interno dei mercati, sgozzano le capre e le galline davanti agli occhi dei compratori. Mentre che il governo costruisce le bombe atomiche, nei villaggi rurali l’accesso all’energia elettrica continua a considerarsi un lusso.
Come scrisse Tiziano Terzani in uno dei suoi articoli: “In India la storia non è un susseguirsi, ma un affiancarsi di fatti”.
La contraddizione è presente anche nella politica indiana, dove sventola ancora la bandiera del Partito del Congresso guidato dai successori del Mahatma Gandhi. Paradossalmente è proprio questa specie di dinastia feudale, che il Mahatma avrebbe voluto evitare, al governo democratico del suo Paese.
Ho trascorso in India un mese, attraversando il Nord del Paese dal Rajasthan all’Orissa, con gli autobus privati e i treni nella terza classe. Ho visitato le città importanti con i luoghi turistici e i villaggi delle tribù indigene, dove tutto è ancora come centinaia d’anni fa. Mi fermavo lungo il percorso nei posti sperduti, dove probabilmente un orso parlante avrebbe avuto meno successo del turista europeo. Non so se ho fatto più foto io a loro o loro a me. Gli indiani sono un popolo curioso e aperto ai visitatori stranieri.
Le cose non sono andate sempre lisce. Sono stata imbrogliata dai guidatori di tuktuk per più di una volta. Mi portavano nei ristoranti e alberghi sbagliati dove loro probabilmente prendevano le commissioni, mi lasciavano a piedi a chilometri di distanza dal luogo richiesto. Ho pagato le cifre triplicate per le cose che compravo lungo la strada, anche se, per fortuna, si trattava sempre soltanto di qualche euro in più.
Ammirando il paesaggio lungo tragitto, ho notato che era tanto vario quanto tutto il resto del Paese. Erano da poco finite le piogge e la campagna era verde e fresca. Nelle vaste distese di riso ogni tanto s’intravedevano le macchie colorate, come fossero fiori primaverili, le teste delle contadine coperte di sari. Una particolarità delle donne che mi ha colpito fin da subito è la loro femminilità, sempre presente anche quando svolgano i lavori sui campi. I loro gesti sono dolci e armoniosi e gli sguardi fieri e decisi.
Osservando le persone mi sono accorta che hanno l’abitudine di guardare dritto negli occhi. Il loro orgoglio di essere indiani è inconfondibile. Da nessun’altra parte del mondo si può trovare un senzatetto che abbia uno sguardo così dignitoso. Nonostante si trovino al margine della società conducono una vita senza vergogna.
Capì, quanto è difficile a comprendere con la logica una realtà complessa come quella di questo Paese. Non saprei rispondere se è bella o brutta. So soltanto che dopo diverse settimane dal mio ritorno non passa un giorno che non pensi all’India, che mi venga in mente qualche ricordo o qualche particolare. Mi sfiora un invadente pensiero come se avessi dimenticato qualcosa che dovrei ritornare a prendere.
Dicono che l’India o la si ami o la si odi. Per me sono entrambe le cose.
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