“Arte in Giappone 1868 | 1945”. Dietro alla semplicità di questo titolo c’è tutto il mistero di un’Oriente che la nostra parte di mondo, spesso anche quella porzione più colta, ignora. La spinta ad iniziare un percorso di ricerca, approfondimento o soltanto lo sfizio di godere di un diversivo al caos pop dell’Occidente contemporaneo, la dà la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con una doppia esposizione. Dal 26 febbraio al 5 maggio, infatti, si avvicenderanno due
tranche di veri capolavori provenienti dal Paese del Sol Levante: molte delle opere in mostra saranno sostituite, il primo aprile, con pezzi degli stessi autori e dello stesso valore simbolico, culturale e artistico.
Scelta obbligata e non vezzo dei curatori; l’intelletto e la creatività giapponesi si rappresentano, quasi sempre, su supporti troppo fragili, primo su tutti la seta – e in seta sono i pannelli dei paravento che accolgono i visitatori. Dietro ad essi l’universo privato dell’oriente si rivela, ad ogni passo, con tutta la forza di una tradizione millenaria e l’incertezza nell’aprirsi alle fascinazioni che dall’Europa e dall’America hanno fatto sentire la propria eco fino al Giappone. “Dal 1868, è iniziato un intenso periodo di industrializzazione e occidentalizzazione del Paese che ha influenzato anche la società e la cultura. Gli artisti hanno iniziato un percorso di ricerca, studiando le diversità fra due mondi così lontani per capire come, e se, integrarle nel proprio patrimonio” – spiega il direttore del National Museum of Modern Art di Kyoto Ozaki Maasaki, qui in veste di curatore, insieme a Matsubara Ryuichi, Senior Curator nello stesso museo.
Suddivisa in tre sezioni, a sottolineare le tre fasi di acquisizione, maturazione ed elaborazione dell’”altro”, la mostra permette una vera riflessione sulla diversità. Il Giappone di metà Ottocento è, evidentemente, un altro mondo, ancora rurale, dove il tempo è scandito dalle tradizioni e dalla natura, non dall’orologio: i colori e gli inchiostri su seta e su carta, quasi sempre in rotolo, hanno, nella mano di ciascun artista, il comune denominatore della tecnica che si fa linguaggio per chi osserva – e mistero per chi non ha familiarità con quella cultura. Con l’avvicendarsi del nuovo secolo la natura e le bestie feroci (che nelle dimensioni e nella veridicità dei loro tratti incutono vero timore), diventano secondari, a volte ornamento, e l’attenzione oscilla fra l’olimpo delle divinità, ri-rappresentate in chiave mitologico-moderna, quasi a cercarne un conforto e una risposta, e il ritratto che si fa sempre più figurativo. L’incalzare veloce degli anni Nouveau, che si sono presto trasformati in Déco e in Futurismo e tutte le altre spinte all’evasione da ogni tipo di canone, si sono sedimentati come i resti di una marea sulle coste dell’arte giapponese che, forse più disorientata che soddisfatta del risultato, ha prodotto ibridi in stile simil- quanto detto precedentemente. Nonostante lo smarrimento è rimasto un ordine formale disarmante che, più di tutto, si riassume nella nomenclatura dettagliata dei pezzi prodotti – “oggetto decorativo a forma di aquila” basti come esempio.
Capolavori, meravigliose tracce della bellezza del diverso, anche nella piccola e comunque originale parentesi occidentalizzante, da ammirare per ritrovare il gusto, una volta tanto in questo tempo di risposte ad ogni costo, di porsi delle domande.
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