Lo scorso 17 febbraio, all’età di 90 anni è morto Maurizio Scaparro,
uno dei più importanti uomini di teatro della seconda metà del ‘900 e regista fra
i più rilevanti del suo tempo. Eppure, per tutto il corso della sua vita
teatrale, l’establishment teatrale, a parte rarissime eccezioni, ha fatto
fatica a riconoscergli questo valore reale e significativo che ha avuto nel
mondo dello spettacolo italiano ed europeo. Certamente i suoi molteplici
interessi volti ad ideare, inventare, costruire eventi, come il Carnevale della Ragione (solo
un apparente ossimoro) nel 1980 alla Biennale Teatro di Venezia, organizzare
Convegni Internazionali (“Arte, scienza e potere” a Roma nel 1988, con Arianne
Mnouchkine) sulle tante problematiche del teatro, dalla nuova drammaturgia
europea, ai nuovi linguaggi della scena, hanno “oscurato”, in qualche modo, la
sua lunga e straordinaria attività registica che lo ha portato a dirigere più
di settanta spettacoli di prosa, oltre alle regie liriche, tutti con grande
successo di pubblico, meno di critica, quasi sempre un po’ tiepida nei suoi
confronti. Nato a Roma il 2 settembre del 1932, Maurizio Scaparro appartiene a
quella generazione di registi venuta fuori nel dopoguerra e che fra le sue fila
annoverava personaggi del calibro di Giorgio Strehler, Luigi Squarzina, Orazio
Costa e poi, via via, tutti gli altri che sono venuti dopo: Giancarlo Cobelli,
Mario Missiroli, Aldo Trionfo, Massimo Castri e, soprattutto Luca Ronconi.
Rispetto a questi, l’interesse per il teatro di Scaparro era, come dire, totale
e per nulla autoreferenziale: quello che lo interessava principalmente era il
testo e la sua realizzazione migliore. Ma non solo il testo da rappresentare
era l’obiettivo del suo lavoro ma tutto quello che viene prima e cosa
costruirgli intorno. Dietro ogni sua scelta di spettacolo c’era sempre una
originale idea di teatro che la sosteneva, da fare venire fuori ed esaltare in
scena prima d’ogni altra cosa: era quindi, essenzialmente, un fatto di teoria e di pedagogia teatrale che aveva come insostituibili strumenti di
ricerca la parola e lo spazio, declinati in svariatissime forme
di rappresentazione, ma come offerti nella
loro nudità espressiva l’innovativo Amleto
del 1978, o il complesso Caligola del
1988, o presentati in imprevedibili e insospettate metamorfosi: Memorie di Adriano (1989), La coscienza di Zeno (2013), il monologo Eleonora,
ultima notte a Pittsburgh (Spoleto, 2011), Cyrano di Bergerac (in due edizioni, 1977 e 1995), La bottega
del caffè (2015). Ma quello che tutti li tiene è il suo Don Chisciotte. Frammenti di un discorso
teatrale (1983), spettacolo multimediale fatto per il teatro, il cinema e
la televisione in cui Scaparro si misura con questi tre differenti linguaggi
attraversati da quelle tre parole/tema luminose
che definiscono e circoscrivono, come meglio non si potrebbe, il senso e la
ragione ultima del teatro di Scaparro: il sogno, l’illusione, la follia che
sono per lui la materia stessa di cui è fatto il teatro. Insieme all’altro tema
costante del rapporto fra politica e potere: dal suo Giulio Cesare
shakespeariano del 1978 alla Vita di
Galileo del 1988. Oltre alla particolare attenzione nei confronti del
repertorio “classico” – Goldoni (Il
teatro comico del 1994 e Mémoires
del 2004), Pirandello (Enrico IV (1998)
e I sei personaggi in cerca d’autore del
2001) – e contemporaneo Massimo Dursi (Stefano
Pelloni detto il Passatore del
1973), Saul Bellow (L’ultima analisi
del 1971) e Vincenzo Cerami (Teatro
Excelsior del 1993). Centrale, in tutto questo, la figura e il ruolo
dell’attore, a cui Scaparro si è sempre dedicato con una cura ed attenzione
continua sia che avessero i nomi importanti di Giorgio Albertazzi, o Anna Maria
Guarnieri, Giuseppe Pambieri, o quelli giovani da “lanciare” sulle tavole di un
palcoscenico come Pino Micol, Massimo Ranieri e Franco Branciaroli, protagonista
quest’ultimo di un inedito e sorprendente Chlestakov nel Revisore di Gogol (1980). Per non dire dei suoi “fedelissimi” attori che l’hanno seguito in quasi tutte le sue imprese teatrali, fra i quali ci piace ricordare Fernando
Pannullo, Giulio Pizzirani, Gianna Giachetti, Piero Nuti e Orlando Forioso (il
danzatore cieco che aveva lavorato con
Lindsey Kemp e che aveva artisticamente “adottato”) e dei suoi insostituibili
collaboratori Roberto Francia, per le scene, ed Emanuele Luzzati per i costumi.
È stato il più “francese” dei registi italiani: Planchon, Barrault, e
soprattutto Patrice Chéreau, sono stati dei modelli di riferimento culturale e
di etica teatrale preziosi: di questi giganti del teatro, sembra averne assimilato,
oltre al magistero registico, anche le raffinatezze intellettuali e
comportamentali che lo portarono nel 1983 alla nomina di Directeur adjoint
del Théâtre de l'Europe, al fianco di Strehler, e poi alla fondazione e direzione
del «Theatre des Italiens» a Parigi: assertore convinto di un Europa della
cultura (“Fare l’Europa delle culture e non quella delle banche”) era uno dei
suoi motti più ostinati. È stato un uomo-teatro arruolato nelle Istituzioni
Pubbliche per portare avanti il suo privato progetto di un teatro “aperto”, che
fosse colto e popolare insieme, attento all’innovazione della lingua della
scena, alla sperimentazione e alla stessa avanguardia. Ricordo ancora il suo
orgoglioso compiacimento quando nel corso di una intervista di tantissimi anni
fa (eravamo verso la fine degli anni ’60), mi disse: “…e sai il primo ad avere portato il Living Theatre in Italia sono
stato io...”. Era stato appena nominato Direttore dello
Stabile di Bologna. Lo spettacolo era The
brig ed aveva appena debuttato ad Avignone. A guardare il Programma di sala
di quella stagione teatrale (Coll. Arcangeli.
Archiginnasio di Bologna) che proponeva, La venexiana, Ma che cos’è questa crisi, The brig, Candida, Il giuoco delle
parti, Il giardino dei ciliegi, La fame di Arlecchino, si colgono tutti gli
interessi teatrali di Scaparro e gli sviluppi successivi della sua “idea di
teatro”, la sua utopia teatrale: tenere insieme l’alto e il basso, il comico e
il drammatico, la sala e la piazza, in quell’unica modalità dettata da una
attivissima e sconfinata fantasia teatrale
giunta al potere. Era il 1964.
Nella foto: Maurizio Scaparro. Archivio Scaparro, Istituto per il Teatro e il Melodramma, Fondazione Giorgio Cini di Venezia.
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