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12 May 2020

Nel tempo immobile il teatro di domani? Conversazione con Giuseppe Liotta

Nel tempo immobile il teatro di domani? Conversazione con Giuseppe Liotta

Author: Rita Sanvincenti / Tuesday, May 12, 2020 / Categories: News, Teatro, Italia / Rate this article:
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In “Ulteriori disposizioni attuative del Decreto-Legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19”, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 59, 8 marzo 2020, è stata stabilita la sospensione di manifestazioni, eventi e spettacoli di qualsiasi natura, inclusi quelli cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato. Il provvedimento è tuttora in vigore e non vi sono prospettive certe di ripresa di tali attività.
Da più versanti, con una sempre maggiore insistenza, si reclama una riapertura invocandola con motivazioni diverse, adducendo principalmente, come prioritarie, quelle derivanti dalle esigenze lavorative degli addetti del settore, debolmente sostenute, talvolta, da qualche sigla sindacale. Nonostante gli interrogativi che si pongono, non solo sulle date ma anche sulle modalità di ripresa, non si hanno risposte e le voci che giungono rappresentano unicamente l’ansia generata dal brusco, inaspettato e destabilizzante blocco di un sistema, parte di altri sistemi, voce di bilancio al momento azzerato.
Un periodo storico, quello che stiamo attraversando, di grave emergenza, ma anche di grandi cambiamenti culturali, sociali, economici e politici. Le trasformazioni in corso, inevitabilmente si riverseranno anche sull’intero sistema teatrale. Giuseppe Liotta, docente universitario, drammaturgo, regista, critico teatrale e cinematografico, presidente di ANCT - Associazione Nazionale Critici di Teatro dal 2001 al 2012 va oltre questa grave contingenza, per inquadrare i problemi del presente risalendo ad altri ben più arretrati nel tempo, ma soprattutto tracciando la strada di una vera ripresa, su rinnovate, solide fondamenta.
Professor Liotta, quali sono le sue valutazioni in questo periodo di chiusura generale di tutte le attività culturali ed in particolare di quelle del teatro?
Secondo me esistono due ordini di problemi. Uno è quello che riguarda chi opera nel mondo dello spettacolo dal vivo, l’altro quello del cinema e della cultura in generale. Mentre per quest’ultimo settore, ad esempio, relativamente alle mostre, abbiamo una data di riapertura che è quella del 18 di maggio, per quanto riguarda il teatro, non è stato detto assolutamente nulla. Dal punto di vista degli operatori del settore teatrale, è evidente che siamo in una situazione drammatica, tragica: nessuno sa niente e non vuole dire niente perché dipendiamo da un virus. Infatti non si sa ancora come rispondere all’emergenza Covid-19 per lo spettacolo dal vivo, che è quello più penalizzato; senza un pubblico, a meno che non sia composto da tre o quattro persone come accadeva in molte rappresentazioni dell’avanguardia degli anni Settanta, al teatro “La Ribalta” di Bologna, o nelle famose “Cantine romane”, oggi non può proprio esistere. Non sono più quei tempi. Il teatro di prosa, oggi, è diventato uno spettacolo di massa che si rivolge ad un pubblico di massa.
E quindi?
Il vero problema è che non si riesce più a concepirlo diversamente. L’altra questione è relativa al pubblico. Francamente, tutta questa richiesta di spettacoli dal vivo, non la vedo. È vero che siamo chiusi in casa, ma è anche vero che nei canali social, nelle lettere inviate dalla gente che i quotidiani nazionali pubblicano su questo tempo immobile, non si percepisce un impellente bisogno di teatro. Sembra un problema che riguarda più gli addetti ai lavori che quel pubblico che fino a qualche mese fa riempiva le sale teatrali. Insomma ho l’impressione che per lo spettatore abituale il teatro non sia necessario, come un po’ demagogicamente si vuole fare credere. Allora, bisogna partire da una nuova necessità di teatro: da ritrovare; del tutto diversa da quella che ha attraversato il teatro degli ultimi vent’anni. Questa assenza di richiesta del teatro dal vivo che registro, dovrebbe spingere i politici ed i responsabili istituzionali ad intervenire radicalmente sul “Sistema teatrale” con decisione e con forza.
Da cosa è determinata l’assenza di questa necessità?
Sarebbe molto interessante indagare su quest’assenza, magari in un prossimo confronto a più voci: al momento, mi pongo soltanto la domanda se tutto il teatro che abbiamo visto in questi anni, in verità non sia stato “altra cosa” rispetto alle esigenze di un pubblico che cambia. L’industria teatrale è andata avanti attraverso delle logiche economiche e di potere che non erano esattamente coincidenti con le reali attese degli spettatori. Dal mio punto di vista è il rapporto tra domanda e offerta che va ripensato: si è creduto più al momento produttivo e ideativo che a quello della ricezione. C’è stata una enorme forzatura nel “sistema-teatro” tutto sbilanciato sul fronte dell’impresa che ha permesso di produrre grandi allestimenti, di riempire i teatri ma in maniera artificiosa, “finta”, buona per la “prima nazionale”, col pubblico che spesso andava a scemare nel corso delle repliche; quindi sostanzialmente effimera, ingannevole; si è andati a teatro per assistere all’evento, come ad un concerto pop, o all’inaugurazione di una mostra importante. È venuta, insomma, a mancare quella specificità del teatro come necessità.
In che modo lo spettatore, oggi, è indotto ad andare a teatro?
Il pubblico è influenzato dai tanti meccanismi generati dai mass-media, da una strategia comunicativa degli Uffici-Stampa e Promozione, abile e complessa. Non voglio fare un’analisi sul passato, ma capire se questo periodo di forzata riflessione può essere l’occasione per modificare alcune distorsioni dell’attuale sistema teatrale. È opportuno cogliere l’occasione di questa pausa per ripensare ad un “teatro diverso”, costruire situazioni teatrali nuove partendo dalle realtà locali, dalla ricerca, dalla sperimentazione, dalla nuova drammaturgia; ripartire dalla piccole compagnie teatrali che operano sul territorio, e inventarsi nuovi spazi per le rappresentazioni. Naturalmente, a tutto questo va aggiunta una riforma del FUS meno emergenziale e stabile che possa garantire l’accesso ai contributi secondo criteri meno disparati e disuguali.
Tutto questo, però, non va a scontrarsi con un sistema che per alcuni è altamente remunerativo?
Certamente! In ogni sua norma e decreto il Ministero privilegia le grandi Istituzioni teatrali mortificando tutte le altre associazioni o sedi culturali in cui si fa teatro; ad esempio, non fa quasi nulla per promuovere la drammaturgia contemporanea o l’editoria teatrale. Nel corso di questo ventennio dominato da un’idea economica di mercato basata essenzialmente sulla capacità di spesa dei teatri e sul profitto è distorto il sistema per cui si creato un vuoto culturale intorno alle Istituzioni teatrali storicamente consolidate. Oggi è difficile distinguere una produzione del “Piccolo – Teatro di Milano – Teatro d’Europa” da quella di Ert (Emilia Romagna Teatro Fondazione) o dello Stabile di Torino o del Teatro di Roma. Quella che una volta era la ricchezza del teatro italiano, data proprio da una varietà dei linguaggi della scena, dalle stesse differenze dei mezzi di produzione che permettevano una costante dialettica nei vari settori del teatro, è andata distrutta; come anche l’esplorazione di nuove modalità di fare teatro, di pervenire ad esiti artistici insospettati. Di conseguenza, è venuta a mancare quella fertile moltiplicazione delle professionalità e dei mestieri che coinvolge l’intero comparto dei lavoratori dello spettacolo e che, uniti insieme da un’idea di teatro, si possono riconoscere in una precisa identità culturale e teatrale.
Cosa è necessario in questo momento?
A mio avviso, occorre rovesciare la piramide teatrale e ripartire dal basso, da nuovi bisogni, da nuovi sogni, dal territorio: da qualcosa di autonomo, originale e vitale, dalla ricerca di una nuova espressività. Per ottenere questo deve avere anche un suo riconoscimento economico, che deve provenire dalle Regioni, dal Comune, dallo Stato.
Questo sarebbe realmente possibile, secondo lei?
Certo che è possibile! Perché ci sono tantissime piccole realtà diffuse in tutto il territorio nazionale che stanno crescendo. Solo che fanno una grande fatica ad essere riconosciute in quanto tali a meno di non venire inglobate nel sistema. Oggi il problema non è di riconoscerle ma di investire su di loro senza chiedere nulla in cambio. Queste nuove realtà devono avere massima autonomia economica ed artistica, circuitazione garantita e certezze progettuali.
Dovrebbero ricevere anche un sostegno economico?
Produrre cultura è lavoro, allo stesso modo con cui si produce un’automobile, e interessa un vastissimo numero di persone: artisti, organizzatori e operatori vari, uffici-stampa, macchinisti, tecnici, con un indotto enorme che coinvolge laboratori di scenografia, sartorie, stamperie, spesso senza tutele specifiche né ammortizzatori sociali, come se fosse un mondo a sé stante senza diritti di base acquisiti in altri settori. Gli spazi devono essere poi ripensati come luoghi permanenti d’incontro teatrale, né gli spettacoli come “quadri per una esposizione”. Il teatro non è solo un luogo ma un punto di deflagrazione del contemporaneo, uno spazio che accoglie il presente e lo declina nelle sue possibili forme. Va bandita la logica degli scambi di spettacoli fra i teatri, se non all’interno di un progetto culturale condiviso. E in questa maniera riaccendere un effettivo interesse per il teatro che al momento non vedo.
Come mai è venuta meno questa passione per il teatro?
Perché gli spettatori hanno cominciato “a subire” gli spettacoli invece che “desiderarli”. È ormai superata l’idea principale del teatro come Servizio Pubblico, su cui sono stati fondati nel 1947 i Teatri Stabili in Italia. Si tratterebbe di proporre un nuovo modello partecipativo, un teatro che non vada solo alla ricerca del consenso, ma di progetti culturali che guardino alla realtà che ci sta intorno, alle problematiche che l’attraversano. Inventarsi uno spazio dinamico di formazione del pubblico attraverso gli spettacoli che esso stesso richiede. Da qui ne discende anche la necessità del recupero massiccio di una drammaturgia contemporanea, non occasionale ma ben strutturata: officina permanente di un pensiero che cambia. Si dovrebbero aprire luoghi in cui, come a Berlino o a Barcellona, si lavori sul presente e sul domani del teatro. Un organismo culturale che elabori proposte e idee a stretto contatto con gli attori, i registi, e lo staff tecnico.
Questa idea non va ad opporsi alle logiche politiche dominanti?
Probabilmente si! Ma, che se ne fa la Politica di un pubblico amorfo, anonimo, differenziato soltanto dal tipo di biglietto che acquista al botteghino? Meglio che sia coinvolto nelle scelte del “suo” teatro senza doverle subire stagione dopo stagione, in base a logiche di potere. Occorrerebbe dare più potere ai teatri di periferia e della provincia e andare alla ricerca di nuovi spazi. A Bologna, al tempo delle avanguardie negli anni ‘70, eravamo tutti molto felici che le sale teatrali non fossero solo quelle “classiche” del centro urbano, ma anche le sale da ballo, i circoli culturali di quartiere, le chiese sconsacrate, le palestre delle scuole: da lì sono passati anche gli spettacoli di Dario Fo.
Era un’altra epoca, molto diversa dalla nostra.
È evidente che occorre adattare questa idea di sistema teatrale “aperto” ai nostri tempi. Gli spazi ci sono: si tratta di stimolare un nuovo modello di “teatro partecipato” che parta da una analisi critica dell’esistente che ribalti le prospettive consolidate cominciando proprio dal “problema del pubblico”. Uno dei primi obiettivi sarebbe quello di favorire un rinnovato bisogno di teatro che, in questo tempo immobile, non vedo. Il teatro si potrà rilanciare solo se cambia al suo interno. Se non si apre a nuove battaglie, a nuove utopie, sarà sempre meno fondamentale e poco influente nella cultura complessiva del nostro Paese.
Il rinnovamento del teatro come si potrà inserire in un contesto politico-economico in cui il monopolio è detenuto da un sistema di tipo industriale, consumistico, che produce e distribuisce?
Penso agli anni Settanta. All’epoca, il primo spettacolo che vidi di Mario Ricci fu Re Lear, al teatro La Soffitta di Bologna, che era lo spazio dell’avanguardia. Nel giro di tre anni ne vidi un altro dello stesso Mario Ricci, fondatore ed esponente di punta del cosiddetto “Teatro immagine”, Moby Dick, andato in scena, con le stesse modalità del primo, al Teatro Duse, cioè nel palcoscenico del teatro cosiddetto “di tradizione”. Da uno spazio dell’innovazione scenica Ricci era arrivato a misurarsi con un pubblico diverso che stava cambiando, ma ancora “da costruire”, da abituare ai nuovi linguaggi della scena. Questo fu possibile perché, paradossalmente, a quei tempi le possibilità di circuitazione, del passaggio da un teatro ad un altro, erano più frequenti di adesso. Oggi, la tenuta in sala di uno spettacolo non supera le tre serate di programmazione. Si va alla costante ricerca dell’evento di breve durata, si spalancano i teatri agli scrittori che leggono i loro ultimi libri, pur di riempire le sale si scavalcano i generi trasformando i cartelloni in una fiera dell’estemporaneo interdisciplinare e multilinguistico. La domanda che ora mi pongo è la seguente: ma i direttori dei teatri, i responsabili dei circuiti regionali e nazionali, non si sono ancora resi conto di gestire un teatro sostanzialmente effimero? O “mortale” come l’ha definito Peter Brook? Non sentono la necessità di ribaltare certe consuetudini e certezze acquisite, cominciare ad interessarsi veramente a un teatro vero, naturale, impulsivo, perfino irrazionale, ma autentico? L’autenticità può nascere solo da un fertile, coltivato spontaneismo, da un’idea che non sia “imitazione d’idea”, da un desiderio personale o collettivo che nasce da un bisogno reale, concreto, destinato inevitabilmente a crescere e a “contagiare” quanta più gente possibile. È qui che il teatro, come sostiene Artaud, si fa Peste, contagio cosciente, indispensabile, libero di diffondersi.
Come funzionava l’organizzazione teatrale nella seconda metà del ‘900?
C’erano meno teatri attivi, ma esisteva il circuito nazionale dell’Eti, che di fatto gestiva la distribuzione teatrale in Italia. Verso la fine degli anni Sessanta venne fondato in Emilia–Romagna il circuito regionale dell’Ater. Nel resto del Paese i Teatri Stabili e gli Enti locali curavano la circuitazione degli spettacoli nei loro territori. Diversamente dal resto d’Europa le nostre erano soprattutto “compagnie di giro”: vivevano del cachet o degli incassi che il circuito e i teatri riuscivano a garantire, oltre al meccanismo di sovvenzione dei “ritorni ministeriali”. Il sistema teatrale era insomma in mano al potere politico. Come adesso! Da questo punto di vista non è cambiato quasi nulla!
Può cambiare questa logica? In che modo si potrebbe rispondere all’esigenza di un nuovo modello teatrale?
Per cominciare basterebbe spostare la gran parte dei contributi dello Stato dall’apparato istituzionale agli spettacoli. È stato calcolato che meno del 15% di quanto elargito da Enti Pubblici e Ministero della Cultura va alle produzioni! Penso, inoltre, che siamo un Paese in cui da 71 anni non c’è una vera Legge organica sul teatro. Nel novembre del 2017 viene tramutato in legge un “Codice sullo spettacolo dal vivo” con il titolo “Disposizioni in materia di spettacolo dal vivo e deleghe al Governo per il riordino della materia”, la Legge 175, che, a parte il necessario riordino del settore da un punto di vista normativo e finanziario, aggiunge poco o nulla dal punto di vista di un rilancio culturale del sistema teatro in generale. Si va avanti con successive nuove disposizioni e decreti aggiuntivi, come se fossimo in una situazione di emergenza teatrale permanente, con una distribuzione delle risorse sempre molto arbitrarie nella forma e discutibili nella sostanza.
Quindi una grande parte delle risorse va all’apparato anziché, come dovrebbe essere in un sistema sano, alle produzioni?
C’era un tempo in cui era chiara la distinzione fra teatro pubblico e teatro privato. Oggi è tutto pubblico o fintamente privato (nel senso che è in gran parte sovvenzionato da fondi pubblici); solo che è gestito secondo una logica “privatistica”, politica e di potere che porta ad escludere brutalmente, ignorandole, le tante piccole realtà esistenti sul territorio che si sono molte volte dimostrate essere, nel loro sommerso, l’espressione più interessante e vitale del nostro teatro.
L’istituzione pubblica che agisce secondo le logiche del privato, non rischia forse di distruggere sia il pubblico che il privato?
Infatti il teatro “privato” non esiste quasi più, cannibalizzato da quello “pubblico”. Ma ha soprattutto cambiato gli spettatori, imponendo spettacoli spesso non degni di un “servizio pubblico”, legati a simpatie personali, logiche di potere politico e culturale, quando non decisamente di tipo strettamente consumistico, che come affetto non collaterale ha portato ad aumentare notevolmente i costi di produzione di uno spettacolo e il conseguente rincaro del prezzo del biglietto. Un po’ come ha fatto Berlusconi quando si è comprato il Milan: da quel momento in poi il mondo del calcio è cambiato e non è ritornato più come prima.
Una logica imprenditoriale e consumistica verso la quale si è avviato anche il sistema teatrale?
Questo è, a mio giudizio, il problema che oggi il teatro drammaticamente vive. Ma questo, forse, non lo sa!
Qual è la condizione dei lavoratori dello spettacolo?
Sono gli unici che lavorano in gran parte con contratti a termine. È emerso adesso che si tratta di un comparto di oltre 300.000 persone, spesso prive di ammortizzatori sociali.
Non esiste nemmeno un albo professionale degli attori. Ci sono tanti, tra loro, che vivono di scritture “a stagione” e che in casi di emergenza come quelli che stiamo vivendo, non sono tutelati. Occorrerebbe fare finalmente chiarezza professionale sulle tante “Scuole di teatro” sparse nella Penisola. L’emergenza coronavirus può quindi essere utile per riflettere su tutti questi problemi e trovare soluzioni che non lascino indietro nessun lavoratore dello spettacolo, anzi gli assicuri una dignità professionale e “di mestiere” completa ed economicamente garantita. Se questo tempo teatrale sospeso non diventerà l’occasione per costruire un futuro diverso e ogni cosa resterà come prima della chiusura dei teatri, questo periodo di sospensione teatrale non sarà servito a niente.
Cos’altro occorre, a suo parere, al sistema teatrale?
Da critico e studioso mi piacerebbe che i teatri, per obbligo di legge, si attrezzassero, in maniera altamente professionale, per le riprese video dei loro spettacoli, in modo da andare a formare, nel tempo a venire, un prezioso Archivio di documentazione storica a cui attingere per lo studio e la ricerca, ed anche per metterlo a disposizione in streaming sui canali del teatro, una volta terminate le tournées. In questo periodo ho visto tanti bei spettacoli in televisione e sui canali di vari teatri nazionali, dal Giardino dei ciliegi di Strehler alla Lehman Trilogy di Stefano Massini, con la regia di Luca Ronconi. Oggi non dobbiamo pensare al teatro in televisione come era negli anni Sessanta quando assolveva semplicemente, ma in maniera assolutamente straordinaria, ad una sua chiara funzione didattico-pedagogica anche se da un punto di vista strettamente storico e filologico lasciava molto a desiderare. Penso a delle riprese che devono essere all’altezza del livello artistico della rappresentazione, disponibili on demand nelle varie piattaforme digitali. Come avviene, già da qualche tempo, con l’Opera lirica. Servirebbe anche a far guadagnare alle sale teatrali un pubblico che vede lo spettacolo soltanto “da casa”.
È una nuova, auspicata mission dei teatri?
Salvaguardare la memoria dello spettacolo dovrebbe diventare uno dei compiti primari del teatro. Ma si potrebbero promuovere produzioni specifiche di teatro “in video” riservate ad “opere prime” di nuova Drammaturgia o che indaghino sui linguaggi del presente.
Si tratta di un investimento di risorse di tipo diverso da quello abituale.
Non si può restare intrappolati nel circolo vizioso della produzione e distribuzione degli spettacoli, ma cominciare a pensare a qualcosa di più ampio, di utile e di più lungo respiro che naturalmente richiederà investimenti di tipo diverso da quelli soliti, ma che saranno un’ipoteca culturale sul futuro del teatro, destinato ad ampliare la sua platea fisica e reale, con quella intangibile e virtuale della televisione.





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