Basato su Oedipus Tyrannos di Sofocle. Ideazione, scene, light design e regia di Robert Wilson
Allestimento site specific per il Teatro Olimpico.
Co-regista Ann Christin Rommen. Musiche originali di Dickie Landry e Kinan Azmeh. Costumi di Carlos Soto. Collaborazione alla scenografia Annick Lavallee-Benny. Collaborazione alle luci Solomon Weisbard. Drammaturgia di Konrad Kuhn. Interpreti Angela Winkler, Mariano Rigillo, Michalis Theophanous, Meg Harper, Casilda Madrazo, Kayije Kagame, Alexis Fousekis. Con la partecipazione di Marta Allegra, Pietro Angelini, Alessandro Anglani, Marcello di Giacomo, Francesca Gabucci, Laila Gozzi, Alice Pagotto, Edoardo Rivoira, Federico Rubino.
Dickie Landry (sax).
Spettacolo in Italiano, Inglese, Greco, Tedesco e Latino.
Traduzioni originali in Italiano di Ettore Romagnoli (1926) e Orsatto Giustiniani (1585)
Un progetto di CHANGE PERFORMING ARTS commissionato e co-prodotto da CONVERSAZIONI - TEATRO OLIMPICO VICENZA / POMPEII THEATRUM MUNDI - TEATRO STABILE DI NAPOLI
TEATRO OLIMPICO – VICENZA
Dal 9 al 20 gennaio 1919 al Teatro Mercadante di Napoli
Sotto la superficie di una immagine scenica di sovrana bellezza, illuminata come al solito in maniera impeccabile e che declina in sequenze strabilianti le più svariate e raffinate esperienze teatrali novecentesche, si spalanca invisibile la tragedia dell’uomo contemporaneo che ha nel mito di Oedipus il suo archetipo principale e nel racconto di quei fatti che lo videro prima assassino del padre Laio, poi amante di sua madre e infine esecutore materiale della propria cecità, una storia in cui si riflette l’atroce destino dell’umanità: la verità indissolubilmente legata alla conoscenza ma entrambe causa di disperazione e dolore.
Bob Wilson procede per inesorabili sottrazioni del testo sofocleo fino ad arrivare alla pura nudità del mito, che peraltro, come ha dimostrato Vladimir Propp nel suo “Edipo alla luce del folclore” (Einaudi 1975), non appartiene soltanto alla cultura greca del V secolo ma è antecedente ed ha origini asiatiche ed orientali, e che qui viene mirabilmente riscritto e riproposto come una fiaba onirica terribile e misteriosa, suggestiva e impenetrabile se non dallo sguardo innocente e naif del regista, in cui non si sono sedimentati quei saperi che l’inconscio di ciascuno di noi scoprirà nel corso dell’ascolto e della visione. Wilson ne reinventa la struttura non soltanto con semplici spostamenti di situazioni ed eventi dall’una all’altra parte della “tragedia classica”, come quello di fare coincidere l’inizio con la fine in una sua inedita “forma circolare”, labirintica della narrazione, ma elidendo anche i dialoghi, le argomentazioni del Coro, gli Episodi, la résis (il monologo) e gli Stasimi nonché l’azione dei personaggi, le ragioni che li hanno portati fino a quel punto per fare trasparire, senza farla vedere, la materia incandescente, di cui quella vicenda si nutre e che trova le sue radici nella natura del mondo con quegli elementi (ramoscelli, foglie verdi, legni, bastoni) che trasudano arcaicità ed etnologia, accostati, in evidente contrasto scenografico, ad elementi/simbolo della nostra contemporaneità, vetri, sedie pieghevoli, lastre di metallo, fogli di carta catramata, quel pezzo di corta corda bianca nella quale allegoricamente si specchia l’intera recita. Così come i costumi di Carlos Sotos, alcuni fortemente “naturalistici”, altri più funzionali ed indicativi, o sorprendentemente metafisici, “surreali”. Alla circolarità drammatica fa da splendido contrappunto visivo la manifesta orizzontalità del movimento scenico wilsoniano sviluppato su tre livelli, quelli su cui Vincenzo Scamozzi ideò lo spazio del Teatro Olimpico, con quel capolavoro di prospettive multiple dell’edificio ligneo e le sue 95 statue di pietra su cui le luci azzurro-pallido di Wilson poggiavano tanto armoniosamente, che sembrava parlassero: l’ulteriore e magico effetto di una phoné particolarmente incisiva e avvolgente.
Dei 1530 versi del testo greco rimangono soltanto poche parole, frasi (alcune ripetute più volte, come in fraseggio musicale), con Voci fuori campo che giungono come eco sonoro degli dèi dell’Olimpo, o dette dai due personaggi Testimoni della storia che la rievocano come in un antico racconto popolare ma con una iconografia precisa che rimanda nel caso di Mariano Rigillo (formidabile la sua recitazione alta, potente, autorevole, sapientemente cadenzata) alla figura di Leonardo da Vinci, mentre per Angela Winkler quella ironica-espressionista. Gli altri attori che attraversano la scena coi loro corpi sono presenze danzanti come Casilda Madrazzo, una Giocasta di arrendevole delicatezza, chiusa nel suo costume-scatola dadaista, o Alexis Fousekis che “taglia“, coi suoi inebrianti attraversamenti il palcoscenico, come una lama di luce bianca, e il giovane e bravissimo Meg Harper, camuffato da Tiresia e da Pastore, o l’inquietante Kayije Kagame, un Coro nero di statuaria bellezza a cui sono affidate le parole conclusive dello spettacolo. Gli episodi visualizzati sono quelli che nel testo sono “nascosti” dalle parole: l’ingresso dei personaggi, l’assassinio di Laio, il matrimonio di Edipo con Giocasta, la peste a Tebe, il suicidio di Giocasta che si impicca, Edipo che si acceca. Una lancinante danza di morti annunciate fin dal primo quadro, a cui viene aggiunto, nel finale, l’avanzare di quella spaventevole “macchia nera” - forse il Minotauro che nel mito greco simboleggia la parte inconsapevole chiusa dentro di noi - che mi ha ricordato Guernica di Picasso, per la permanenza di un incubo che arriva fino ai nostri giorni. A raccordare tutto ciò che avviene in scena il sax soprano di Dickie Landry, insinuante e strepitoso tanto da trasformare quest’ultima rappresentazione di Robert Wilson – anche per quel sottile, continuo rimando alle avanguardie sceniche degli anni ’70 - in una struggente, indimenticabile performance musicale e teatrale, e nel suo spettacolo più interessante e magistrale di questi ultimi anni.
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